Come non prendere un bel voto al Maffei

Il liceo ginnasio di Verona è dedicato a Scipione Maffei (Wikipedia-ITA, Dizionario Biografico Treccani), ed un modo efficace per rimediare un brutto voto in quella scuola è dare retta a quest'immagine pubblicata nel blog di Gilberto Gobbi:

Gobbi ci tiene a non essere chiamato omofobo, ma mettere sull'immagine un uomo che vomita (nauseato, sembra) materiale LGBTQAI (tra parentesi, la bandiera arcobaleno del movimento ha solo 6 colori - il motivo è spiegato qui) lo smentisce.

Ma non è quello il problema  principale. Cominciamo da Platone, morto al più tardi nel 347 AEV (Ante Era Volgare - la dizione ebraica per "avanti Cristo"), e da una parola coniata nel 1869 EV (Era Volgare = dopo Cristo) che viene usata improvvidamente per tradurre un suo brano.

La parola tedesca "homosexualitaet", da cui deriva l'italiano "omosessualità", fu coniata nel 1869 dal pubblicista ungherese Karl-Maria Benkert; mentre nella lingua originale e nel suo derivato inglese la parola può significare sia "comportamento omosessuale" che "orientamento omosessuale" (quest'ultima nozione non è definita in modo univoco - vedete ad esempio una mia pagina, la definizione del DDL Scalfarotto, la definizione dell'American Psychological Association), in italiano, francese ed ebraico i derivati della parola significano solo "orientamento sessuale".

Questo fa del suo uso per tradurre Platone dal greco antico in italiano un errore da matita blu, per due motivi.

Innanzitutto, il brano di Leggi 836 b che nella versione di Gobbi riporta la parola "omosessualità", secondo un'edizione ben più attendibile (UTET, curatore Francesco Adorno), recita:
“gli amori dei ragazzi fra loro, maschi e femmine, e delle donne per le donne che fanno la parte di uomo, e degli uomini per gli uomini che fan la parte di donna”
Platone qui parla del comportamento omosessuale, a lui certamente ben noto, tanto è vero che il vigore con cui lo attacca nel dialogo platonico in questione ne testimonia direttamente ed indirettamente la diffusione e la legittimazione sociale nella Grecia dei suoi tempi (c'è chi lo nega, a giudicare da questa pagina, e quindi val la pena ribadirlo); la nozione di "orientamento sessuale" gli era invece sconosciuta.

E questo è il secondo motivo della matita blu: mettergli in bocca la parola "omosessualità" è altrettanto anacronistico che far apparire nelle sue opere, a forza di strafalcioni di traduzione, il sistema metrico decimale, la locomotiva a vapore, il telegrafo elettrico, l'uso dell'etere e del cloroformio come anestetici e dell'acido fenico come antisettico, i motti "Hon(n)i soit qui mal y pense" (pardon, volevo dire "Dieu et mon droit"), "E pluribus unum", "Liberté, Egalité, Fraternité", "Nei secoli fedele", "Viva VERDI [Vittorio Emanuele Re D'Italia]", eccetera. In pratica, si trasforma un'opera filosofica classica in un romanzo steampunk!

Va detto che in Internet si trovano diverse pagine in cui compare questo brano platonico tradotto così male - eppure Gilberto Gobbi non si è insospettito per l'evidente anacronismo (avrebbe dovuto essere evidente soprattutto a lui, psicologo e sessuologo con decenni di esperienza alle spalle), motivato da un livore polemico tanto feroce da travolgere il rigore filologico, e da nuocere proprio al filosofo che si vuole difendere, e le ha copiate senza discernimento critico.

Gobbi scrive anche che in Leggi 836 a-c Platone considera "indecente l'amplesso tra maschi e l'unione con adolescenti". Si tratta di una citazione abbastanza libera, e non nel luogo indicato; l'edizione a mia disposizione dice invece, in Leggi 836 d:
"E allora, se ci trovassimo d'accordo su questo punto, che cioè tali pratiche son belle e nient'affatto vergognose, e tali che il nostro Stato possa innalzarle a legge, quale vantaggio potremmo aspettarci da esse per il conseguimento della virtù?"
Platone si trova a dover convincere i suoi contemporanei (impresa disperata, a quanto pare) che ciò che loro ritenevano lecito e bello era socialmente nocivo. Ma l'unico argomento che ritiene in qualche modo convincente è che tali pratiche favoriscono l'intemperanza.

E se Platone avesse avuto la nozione di orientamento sessuale che si trova nel linkato DL Scalfarotto, che avrebbe pensato delle persone di orientamento omosessuale? Proviamo a leggere Leggi 837 a-d (sempre dall'edizione UTET curata da Francesco Adorno):
(…)
ATENIESE: Noi diciamo che il simile ama il suo simile in valore, e l’uguale l’uguale; e viceversa diciamo che la povertà è attratta dalla ricchezza, che è appunto di genere contrario. Ora, quando l’una o l’altra di queste due specie di attrazione diventa più vivace, in tal caso le diamo il nome di amore.
CLINIA: Giusto.
ATENIESE: Ebbene, l’attrazione che deriva dai contrarii è terribile e selvaggia e raramente trova in noi corrispondenza, mentre quella che deriva dalla simiglianza è dolce e corrisposta per tutta la vita. Quella invece in cui si mischiano ambedue non è facile comprendere, a colpo, in che cosa consista, né facile è capire che cosa voglia chi è affetto da questa terza specie d’amore: egli resta come in un vicolo cieco sotto l’opposta spinta dell’uno e dell’altro, ché un sentimento lo alletta a cogliere la giovinezza in fiore, mentre l’altro glielo proibisce. Colui che infatti ama il corpo, e, come di un frutto, ha fame della giovinezza che si vien maturando, spinge se stesso a saziarsene, senza curarsi affatto di come l’anima della persona amata si costituisca moralmente. Chi dà invece secondaria importanza al desiderio del corpo, e si accontenta di contemplarlo piuttosto che di volerlo e l’anima sua di amore si accende per un’altra anima, riterrebbe oltraggiosa la soddisfazione del corpo sull’altrui corpo, e , rispettando e venerando a un tempo la temperanza, la fortezza, la nobiltà dell’animo, l’intelligenza vorrebbe in continua castità vivere con il casto oggetto del proprio amore. Questa, appunto, quella specie d’amore che risulta dal mescolarsi delle altre due specie, e di cui sopra abbiamo parlato indicandola come terza. Ma poiché più d’una sono queste specie d’amore, tutte deve proibirle la legge, reprimendole in noi? O non è forse chiaro, invece, che nel nostro Stato vorremmo esistesse l’amore virtuoso, quell’amore che desidera che il giovane diventi il migliore possibile, e proibiremmo, invece, entro i limiti del possibile, gli altri due? Amico Megillo, che dobbiamo rispondere?
MEGILLO: Sulla presente questione hai perfettamente parlato, o forestiero.
A quanto pare, la forma più nobile di amore per Platone, anche in questo dialogo, è quella di un uomo adulto per un ragazzo giovane di cui apprezzi e voglia sviluppare le potenzialità; questo amore non deve esprimersi con rapporti sessuali penetrativi (Leggi 836 c: “… sostenendo esser cosa retta che i maschi non si uniscano fra loro o con ragazzi, usando gli altri come se fossero donne per una materiale unione carnale …”), ma è assolutamente meritorio – e le donne (come mostra la precedente citazione) non lo meritano.

Questo tipo di amore, chiamato in greco “paiderasteia” (da cui l’italiano “pederastia”) era ben regolamentato ad Atene, e sembra che Platone si rammarichi del disuso in cui erano cadute queste regole.

Come insegna Eva Cantarella, esse prevedevano che il giovane amato fosse schizzinoso nella scelta degli adulti da cui farsi amare, esigesse un lungo corteggiamento e dei gran regali - ed evitasse di subire la penetrazione anale; essa era infatti considerata disdicevole, e lo faceva entrare non nella categoria degli adulti, ma dei “kynaidoi” (da cui l’italiano “cinedi”), persone con meno diritti civili perché la loro intemperanza e la loro “passività” li rendevano indegni di essere cittadini a pieno titolo; ed infatti, in molti vasi greci si mostra non un rapporto anale, ma un rapporto intercrurale (in cui l’amante infila il pene tra le cosce).

Il maggior plauso di Platone non è quindi rivolto a chi ama solo la propria moglie, ma a chi sa esserle fisicamente fedele pur coltivando una forma di “paiderasteia” più casta di come la intendevano i suoi contemporanei (bersaglio degli strali del filosofo).

L'opinione che mi sono fatto leggendo il dialogo è che due sono le preoccupazioni principali del filosofo: la procreazione e la temperanza.

L'ossessione della procreazione (motiverò la mia scelta dei termini) gli fa proibire, in quest'utopia totalitaria (Popper docet) che è il dialogo delle "Leggi", tutti i comportamenti sessuali non procreativi - quindi, non solo l'omosessualità, ma anche la masturbazione ed il coito eterosessuale non coniugale (in cui non si desidera certo la gravidanza).

La virtù della temperanza è caduta un po' in disuso nella moderna società opulenta, e vale la pena ricordare che per Platone essa non era soltanto a guardia del patrimonio, ma anche della rettitudine: la persona abituata a non cedere alle proprie passioni è capace di fare scelte moralmente valide anche sotto forte pressione.

E Platone vede il comportamento omosessuale come dettato dall'intemperanza, anzi, come la forma di intemperanza più difficile da frenare (anche per la diffusione e la legittimazione sociale di cui godeva nella Grecia a lui contemporanea), e quindi la più diseducativa. Una famiglia omosessuale capace di procreare (grazie alla fecondazione assistita) e di temperanza (perché monogama) avrebbe avuto delle buone probabilità di non essere da lui condannata.

I lettori attenti osserveranno che per Platone il rapporto omosessuale è anche contro natura; vero, ma l'argomento a cui ricorre in Leggi 836 c (che gli animali non lo praticano) è palesemente falso, e lui si rende conto di quanto poco sia convincente per i suoi interlocutori (che avevano molta più esperienza di noi di vita con gli animali). Mi permetto di trascurarlo come lui di non approfondirlo.

Adottando la più esigente definizione di "orientamento sessuale" dell'American Psychological Association, per cui "orientamento sessuale" non è soltanto l'attrazione verso le persone del proprio genere, ma anche il desiderio di relazioni intime con loro
"che rispondono a necessità profondamente sentite di amore, attaccamento ed intimità. Oltre ai comportamenti sessuali, questi legami comprendono le affettuosità espresse in modo fisico, ma non sessuale, scopi e valori condivisi, mutuo sostegno, ed impegno continuativo",
chiedere a Platone se avrebbe apprezzato le relazioni intime tra due persone del medesimo genere non avrebbe avuto senso, perché la sua concezione dell'amore, che scinde il sesso dal sentimento, non consente relazioni intime di nessuno con nessuno.

Platone si rende conto che "questa terza specie di amore" non giova a nessuno, ma la risposta che propone è sbagliata, in quanto perpetua ed aggrava anziché saldare la scissione.

E sbagliata è qualsiasi concezione della sessualità che ponga la procreazione in primo piano. Essa non ha niente di diverso dal ritenere che ogni attività umana debba procurare un tornaconto tangibile – ma quando una persona è taccagna e si vieta qualsiasi cosa che non sia lucrativa, tutti riconoscono la sua meschinità (Otto Kernberg dice tranquillamente che ha una grave problematica narcisistica); quando uno pensa che il sesso debba procurare solo prole, nessuno (salvo forse Seneca – ne riparlerò) si rende conto dell’assurdità della pretesa.

Eppure tutti diffiderebbero di un musicista che componesse solo su lauta commissione, e si chiederebbero a che servirebbe un salone dell’automobile che esponesse solo modelli in listino, e non anche “concept cars”, in cui i progettisti sbrigliano la fantasia ed esplorano il futuro dell’automobile.

Queste sono purtroppo le cose che succedono quando si ha una concezione totalitaria dello stato: ogni cosa deve essere piegata alle sue esigenze e, come l’arte diventa propaganda, così anche gli organi sessuali diventano macchine utensili per produrre prole - e ne va ottimizzato il funzionamento.

Aristotele è vittima di un fraintendimento peggiore. Leggiamoci Etica Nicomachea, da 1148b 15 a 1149a 15 [Edizione Rusconi, curatore Claudio Mazzarelli]:
Ora, poiché alcune cose sono piacevoli per natura, e di queste alcune lo sono in senso assoluto, mentre altre cose non lo sono, ma lo diventano o per difetti di crescita o per abitudini acquisite, altre ancora per depravazione della natura, è possibile vedere anche di ciascun tipo di queste le disposizioni corrispondenti. Intendo per disposizioni bestiali, per esempio, quella della donna che, dicono, sventrava le donne incinte e ne divorava i feti, o quelle di cui provano piacere, dicono, certi selvaggi delle coste del Ponto, alcuni dei quali mangiano carni crude, altri carni umane, altri ancora si scambiano reciprocamente i figli per farne lauto pasto, o quello che si racconta di Falaride. Questi sono comportamenti bestiali; ma certi sono provocati da malattia (anche da follia per alcuni, come quel tale che offrì sua madre in sacrificio e la divorò, o quello schiavo che si mangiò il fegato del suo compagno), altri sono stati morbosi derivati da un’abitudine, come, per esempio, lo strapparsi i capelli e il mangiare le unghie, e anche carbone e terra; ed inoltre, fare all’amore tra maschi: ad alcuni questo succede per natura, ad altri in forza di un’abitudine, come a quelli che sono stati violentati da bambini. Nessuno, dunque può dire incontinenti tutti coloro la cui depravazione è causata dalla natura, come non si possono chiamare incontinenti le donne, dal momento che nella copulazione non sono attive, ma passive. Altrettanto si deve dire di coloro che hanno disposizioni morbose a causa di un’abitudine. Quindi, il possesso di ciascuno di questi tipi di disposizione è al di fuori dei confini del vizio, come lo è la bestialità; per l’uomo che le possiede, dominarle o esserne dominato non costituisce la continenza o l’incontinenza pure e semplici, ma solo per analogia, come chi è in questa situazione per i suoi scoppi di impulsività non si deve chiamare semplicemente incontinente, ma incontinente in questa passione. Infatti, ogni volta che arrivano all’eccesso, la stoltezza, la viltà, l’intemperanza, il cattivo carattere sono o bestiali o morbosi. L’uomo, infatti, che per natura è di indole tale da avere paura di tutto, anche dello strepito di un topo, è vile di una viltà bestiale, mentre chi ha paura di una donnola è determinato da una malattia. E degli stolti, alcuni sono privi di ragione per natura e, poiché vivono soltanto col senso, sono bestiali, come certe razze di barbari lontani; altri invece, che sono privi di ragione a causa di malattia come l’epilessia o la follia, sono morbosi. Ora, di queste disposizioni morbose uno può possederne qualcuna soltanto qualche volta, senza esserne dominato: intendo, per esempio, il caso in cui Falaride si fosse contentato quando desiderava divorare un fanciullo o quando desiderava procurarsi un piacere sessuale contro natura. (…)
Rileggete attentamente: se lo Stagirita (cioè Aristotele) avesse voluto dire che i rapporti sessuali (anali, verrebbe voglia di precisare) tra maschietti sono una cosa bestiale, dovremmo ritenere bestiale anche mangiarci le unghie (e questo anche volendo ignorare la contorsione sintattica che ci imporrebbe quest'interpretazione). Questa è una cosa chiaramente assurda, ed infatti l’autore di questo PDF si rende conto che Aristotele designa l’inclinazione verso la penetrazione anale uno stato morboso, non una bestialità.

Ed anche per Aristotele vale quello che riporto di Eva Cantarella a proposito di Platone: il problema è la pratica erotica, non la relazione tra le persone. Il Falaride di cui parla qui Aristotele e parlano altri autori classici non è passato alla storia per aver amato tanti maschietti, ma per essere stato il tiranno di Agrigento ed aver fatto fondere un toro di bronzo cavo in cui arrostire i suoi nemici – le loro urla venivano trasformate in muggiti dalla faringe del toro, e penso che la sua "disposizione bestiale" di cui si parla qui non fosse la sodomia, ma la crudeltà, che per gli antichi era superiore a quella di tutti gli altri tiranni.

Direi che Martìn F. Echavarrìa ha letto Aristotele assai meglio di Gilberto Gobbi. Questi consiglia a chiunque voglia opporsi agli incontri delle classi con associazioni LGBTQAI di esigere le credenziali di chi verrebbe a parlare, sperando di dimostrarne l’inettitudine – reggerebbe Gilberto Gobbi la medicina che egli stesso consiglia? O non rischia di fare (metaforicamente) la fine di Perillo, colui che fuse il toro di Falaride, e lo dovette pure collaudare?

Nell’argomentazione di Gobbi segue Seneca, ma preferisco tenerlo per ultimo; Epitteto non se la cava troppo bene.

Dei tre brani di Epitteto citati, il più divertente è il primo – se non si legge solo Diatribe, 3, 7, 21, ma Diatribe 3, 7, 19-23.

Infatti il brano recita [edizione Laterza, curatore Renato Laurenti]:
In nome di Dio, t’immagini una città di Epicurei? “Io non mi sposo”. “Neppur io, ché non ci si deve sposare”. E non si deve far figli, e neppure partecipare al governo. Che succede? Donde verranno i cittadini? Chi li istruirà? Quale efebarco? Quale ginnasiarca? E che cosa insegnerà ad essi? Quel che apprendevano i lacedemoni o gli ateniesi? Prendimi un giovane, tiralo su secondo le tue dottrine. Sono dottrine nocive, sovvertitrici dello Stato, distruttrici della famiglia, non adatte a donne. Abbandonale, uomo. Vivi in uno Stato dominatore: devi ricoprire posti di comando, giudicare secondo giustizia, astenerti dall’altrui: nessuna donna t’ha da apparire bella se non la tua, nessun ragazzo bello, nessun vasellame bello, sia d’argento o d’oro. Cerca una dottrina in armonia con questi principi, una dottrina su cui fondarti per astenerti di buon grado dalle cose, tanto abili ad attrarci e a superarci. Ma se, oltre le seduzioni delle cose, noi troviamo una filosofia come la vostra che ci aiuta a darci in braccio ad esse e ne raddoppia la potenza, che accade?
Quello che mi diverte in questo brano è che mi chiedo come reagirebbe un chierico cattolico al modo in cui Epitteto apostrofa chi non si sposa per scelta; vedo però che tutto si può usare per negare a delle persone i loro diritti.

Qui mi pare evidente che Epitteto si pone due problemi: costruire una famiglia durevole (le relazioni pederastiche erano per loro natura transitorie) e coltivare la temperanza, madre delle virtù morali e civiche.

Quello che si può rimproverare ad Epitteto è il non riuscire ad immaginare quello che sa immaginare Avraham Burg, un ebreo israeliano sionista-religioso, ma progressista. È sposato con una donna da cui ha avuto sei figli, e dice che le proibizioni bibliche contro i rapporti omosessuali (maschili, va precisato) nascono dalla loro infecondità; ma la possibilità di ricorrere alla riproduzione assistita consente anche a queste coppie di generare, e questo rende tali proibizioni obsolete.

Leggiamo gli altri due brani [della medesima edizione], cominciando da Diatribe, 2, 18, 13-19 (non solo 15-18):

"Avevo l'abitudine di andare in collera tutti i giorni, ora, invece, è un giorno intero che non m'adiro, ecco sono due, ecco son tre!" E se l'eviterai per trenta giorni, fa' un sacrificio a Dio. Perché l'abitudine dapprima s'indebolisce, poi sparisce del tutto. "Oggi non mi sono addolorato, né il giorno dopo, né in seguito per due o tre mesi, ma mi sono tenuto in guardia, quando accadeva qualcosa che potesse provocarmi". Sappi che le cose vanno bene per te. "Oggi, alla vista di un bel fanciullo o di una bella ragazza non mi sono detto: 'Oh, si giacesse qualcuno con lei!' e 'Beato suo marito!'" Perché chi lo dice, direbbe anche: 'Beato l'adultero!'. Neppure mi rappresento le scene che seguono: lei che si presenta, che si sveste, che mi si mette a giacere accanto ... mi carezzo la fronte e dico: "Bravo, Epitteto, hai risolto un sofisma piccolo e fino, molto più fino del 'Dominatore'!". Se poi, nonostante che la ragazzetta voglia e mi faccia cenni e mi mandi a chiamare, nonostante che mi tocchi e mi si metta accanto, io mi tolgo di lì e vinco, ecco già risolto un sofisma superiore a quello del Mentitore o del Riposante. Di questo è ben giusto andar fieri, e non di proporre il Dominatore. Come può avvenir ciò? Fa' che tua volontà sia appagarti finalmente di te stesso, apparire bello agli sguardi di Dio: che tuo desiderio sia diventare puro, d'accordo col tuo 'io' puro e d'accordo con Dio.
Il passo è molto bello, ma l'attrazione verso un ragazzo non è biasimata più dell'attrazione verso una ragazza - anzi, probabilmente perché statisticamente più frequente, e perché passibile di condurre all'adulterio (molto più riprovato, da Epitteto e dai suoi contemporanei, di un rapporto sessuale con un efebo, a quanto pare), essa viene combattuta con maggior vigore.

Epitteto non ama i rapporti omosessuali occasionali meno di quanto ami i rapporti eterosessuali occasionali - purtroppo, come ho prima ricordato, la sua epoca non concepiva relazioni omosessuali durevoli (anche se ce ne sono state: Eva Cantarella ricorda quella di Euripide ed Agatone), e lui non ha abbastanza immaginazione per superare questo limite.

Ultimo brano di Epitteto - Diatribe 3, 21, 11-16 (non solo 13):

"Ma quello tiene una scuola: perché non la terrò anch'io?" Non si fanno a caso queste cose, schiavo, né come capita; ci vuole una certa età, una certa dignità, e la guida di un dio. Voi dite di no: eppure nessuno si stacca dal porto senz'aver sacrificato agli dei ed averne invocato l'aiuto, né seminano se prima non hanno invocato Demetra: e accingendosi a un'opera di sì grande portata, chi vi si accingerà con fiducia senza gli dei? E quelli che andranno a tale scuola, faranno bene ad andarci? Che altro fai, uomo, se non parodiare i misteri e dire: "C'è una cappella ad Eleusi: eccola anche qui. Lì c'è lo ierofante: lo farò io lo ierofante. Lì c'è il banditore: e anch'io porrò il banditore. Lì c'è un daduco: e anch'io porrò un daduco. Lì le fiaccole: anche qui. Le parole sono le stesse: in che differisce questa cerimonia da quella?" Empissimo uomo, non c'è alcuna differenza? Forse che gli stessi atti recano giovamento se non rispettano né il luogo né il tempo debito? No. Ma si deve intervenire con un sacrificio e con preghiere, dopo una purificazione preliminare, con lo spirito disposto a partecipare a riti sacri e, per di più, a riti sacri di antica data. Così diventano utili i misteri, così giungiamo ad immaginarci che tutte queste cerimonie furono istituite dagli antichi col proposito di educare e di correggere la vita. Tu, invece, li sveli, e ne fai la parodia, fuori tempo, fuori luogo, senza sacrifici, senza purificazioni: non hai la veste che si addice allo ierofante, non la chioma, non la benda che si conviene, non la voce, non l'età, non ti sei purificato come lui, ma hai raccolto solo le sue parole e le proferisci. E queste parole sono forse sacre di per sé?
Quest'ultimo brano non è specifico contro il matrimonio egualitario, anzi, potrebbe addirittura essere usato contro chi si sposa civilmente (è stato il mio caso), o chi pratica un culto diverso da quello maggioritario.
Non conosco l'atteggiamento di Epitteto verso i culti diversi dal proprio - questo brano fa però pensare che a lui prema difendere dalla profanazione (una locuzione moderna americana più adatta sarebbe forse "cultural appropriation = predazione culturale") i Misteri Eleusini a cui era iniziato, e non avrebbe nulla da dire sui riti celebrati seguendo altre norme civili o religiose. Epitteto non brandisce un'arma contro nessuno.

Ritengo opportuno ricordare che per i cristiani evangelici il matrimonio non è un sacramento, ed agli sposi si impartisce di religioso solo una benedizione – non ci è voluto molto quindi per somministrarla anche alle coppie omosessuali.

Inoltre gli ebrei riformati ordinano tranquillamente rabbini gay, rabbine lesbiche, rabbin* transgender - e di norma i rabbini sono sposati; ci è voluta molta creatività per fare un rito sponsale e nuziale ebraico adatto a queste coppie, ma lo hanno fatto, e credo che Epitteto non oserebbe metter becco, perché non si tratta appunto dei Misteri Eleusini.

Per non esagerare trascuro le divinità atzeche (Xochipili) e cinesi (Tu Er Shen) che proteggevano o proteggono le persone dal comportamento omosessuale, anche se pongono con più forza l'interessante problema: chi vuole rispetto per la propria religione quando impone l'omofobia, è disposto a concederlo ad una che esige invece l'LGBTQAI-friendliness?

Inoltre, considerato che gli stoici, a partire dal loro caposcuola Zenone, rispettavano le leggi della loro “polis”, partecipavano di buon grado alla vita politica, si adattavano all’ordine sociale vigente e compivano senza fallo i loro doveri, probabilmente Epitteto eviterebbe di tuonare contro l’ordinamento costituzionale americano, che fa sì che nell'anno di grazia 2014 non passi settimana senza che uno dei 50 stati dell’Unione veda il proprio divieto di matrimonio egualitario abbattuto dai giudici federali che vedono in esso discriminazione illegittima.

Seneca è filosofo più impegnativo di Epitteto, anche nella confutazione che mi impone.

Cominciamo dall’opera “De Matrimonio”. Non la trovate con quel titolo, ma tra i “Frammenti” di Seneca, in quanto San Girolamo ne cita dei brani nell’opera “Adversus Jovinianum”.

E qui nasce un grosso problema: San Girolamo non si è fatto la fama di citator fedele e pedante – nella medesima opera ha citato Plutarco in modo da stravolgerne il senso (e ce ne rendiamo conto perché quel testo plutarcheo lo conosciamo anche da altre fonti), e perciò chiunque voglia avvicinarsi a quest’opera di Seneca deve per prima cosa capire che cosa è stato copiato fedelmente, che cosa rimaneggiato e che cosa stravolto da San Girolamo.

Per farlo occorre confrontare la lingua, lo stile, il contenuto con altre opere sicuramente di Seneca – un’impresa titanica che pochi hanno tentato, e che minimizza la possibilità che si possa riconoscere un pensiero autenticamente senechiano espresso solo lì, perché il primo sospetto che viene è che sia un’aggiunta od un fraintendimento di San Girolamo.

Io avrei preferito evitare di citare un’opera così problematica, e limitarmi ad opere dal contenuto più assodato, ma vedo che la prudenza non è la virtù di tutti, soprattutto da quando Internet ha cominciato a deresponsabilizzare le persone, che spesso copiano ed incollano senza vagliare la qualità del materiale che hanno in mano.

Chiara Torre ha voluto affrontare il mostro, ed in questo lungo PDF dà di quest’opera e del pensiero del suo autore sul matrimonio un’immagine molto più sfaccettata di quella di Gobbi - e su quest'indagine mi baso.

Da una parte Seneca ritiene che gli atti sessuali servano solo a procreare (a dire il vero, è un'osservazione di Michel Foucault), dall’altra avverte che è sbagliato sposarsi solo per procreare, o per avere comunque vantaggi sociali (come ad esempio sfuggire alla solitudine, od alle leggi contro i celibi dell’antica Roma) - direi che Seneca ha avuto fiuto a rendersi conto di come si possa compiere un atto nobile per motivi ignobili.

Riassumendo la lunga trattazione della Torre, Musonio Rufo (allievo di Seneca e maestro di Epitteto) condenserà gli insegnamenti del maestro e del tardo stoicismo mostrando che il matrimonio per il “sapiens = saggio” è l’occasione di realizzare una “koinonìa = comunione di vita” con un “alter ego = secondo me stesso”, fondamento di una società improntata alla “dikaiosyne = giustizia”.

La donna perciò non deve essere tenuta in condizione di subordinazione ed ignoranza (ma la misoginia cacciata dalla porta rientrerà poi dalla finestra), e la procreazione in questo quadro è importante, anche come dovere sociale, ma non ha il primo posto.

Leggete pure le Diatribe, 13 A, (tratte da qui) di Musonio Rufo:

“La cosa più importante in un matrimonio è la comunanza di vita e la generazione dei figli. Infatti lo sposo e la sposa devono unirsi l’uno all’altra, generare insieme e considerare tutto in comune, nulla come proprio, neppure il corpo stesso. E grande evento è la generazione di un essere umano che questo giogo procura. Ma per lo sposo non basta questo soltanto, che invero potrebbe risultare anche al di fuori del matrimonio, da altre unioni, come anche gli animali si uniscono tra loro. Bisogna invece che nel matrimonio abbia luogo una completa comunanza di vita e una reciproca sollecitudine dell’uomo e della donna, sia nella salute, sia nella malattia, sia in qualsiasi circostanza. […] Quando dunque tale sollecitudine è completa, e gli sposi che convivono se la donano compiutamente in modo reciproco, facendo a gara per vincersi l’un l’altro, questo matrimonio funziona come si deve ed è degno di emulazione, perché simile unione è bella”.
e vi rendete conto di quanto lo stoicismo sia stato frainteso da Gobbi.

Già per Seneca il matrimonio è un’occasione per entrambi i coniugi di perfezionarsi nella ricerca della “sapientia = saggezza” e della conformità del loro agire al “Logos” providente. Il matrimonio appare soprattutto per la donna un’occasione di perfezionamento morale, sotto la retta guida del marito; qui possiamo vedere sia la misoginia dell’autore (che ritiene la donna inferiore), sia la volontà di elevare la donna ad un piano superiore (cosa che altre correnti filosofiche ritenevano impossibile).

Non è un pensatore facile Seneca, e credo che il migliore esempio del suo atteggiamento verso il gentil genere lo mostri il suo rapporto con la moglie Paolina, ben descritto nella Lettera 104 a Lucilio:
Nella mia villa di Nomento ho cercato scampo, cosa credi? dalla città? No, da una febbre, e insidiosa, che si era già impadronita di me. Il medico, dai battiti del polso alterati e irregolari tanto da turbare le normali funzioni, diagnosticava l'inizio di una malattia. Ho dato, perciò ordine di preparare sùbito la carrozza; e, nonostante l'opposizione di Paolina, mi sono ostinato a partire. Avevo davanti agli occhi lo spettacolo del mio caro Gallione, che si era preso la febbre in Grecia e immediatamente si era imbarcato, proclamando che il male non era del suo fisico, ma di quel posto. Questo l'ho detto alla mia Paolina che mi raccomanda sempre la salute. Sapendo che il suo spirito fa tutt'uno col mio, per un riguardo a lei, comincio a riguardarmi io stesso. E mentre la vecchiaia mi ha reso più forte per tanti versi, perdo questo beneficio dell'età; penso che in questo vecchio c'è anche una giovane cui si deve attenzione. E visto che io non ottengo da lei che mi ami con più forza, lei ottiene da me che io mi ami con più cura. Bisogna assecondare gli affetti onesti; e qualche volta, anche se ci sono dei gravi motivi, anche a costo di sofferenze bisogna richiamare lo spirito vitale per rispetto dei propri cari, bisogna trattenerlo coi denti, visto che un uomo virtuoso deve vivere non fino a quando gli piace, ma fino a quando è necessario: chi non stima la moglie o un amico tanto da prolungare la propria esistenza, chi si ostina a voler morire, è uno smidollato. L'anima deve imporsi, quando lo esige il vantaggio delle persone care, di rimandare, non solo se ha deciso di morire, ma anche se ha cominciato a morire, e di compiacere i suoi. È di un animo nobile tornare alla vita per gli altri e i grandi uomini l'hanno fatto spesso. Ma io, benché il massimo frutto di questa età sia una difesa meno preoccupata di se stessi e un'utilizzazione più coraggiosa della vita, ritengo segno di alta umanità anche curare con più attenzione la propria vecchiaia, se sai che ciò è caro, utile e augurabile per qualcuno dei tuoi. E oltretutto una cosa così è di per sé non poco piacevole e gratificante: che cosa c'è di più gradito che essere tanto caro alla moglie da diventare per questo più caro a te stesso? E così la mia Paolina può imputarmi non solo i suoi timori, ma anche i miei.
Un bel brano addirittura lirico, vero? Purtroppo, la principale virtù femminile che viene premiata da Seneca è la “pudicitia = pudore”, espressa come assoluta fedeltà al marito futuro, presente e passato (perché Seneca disapprova non solo i rapporti prematrimoniali e l'adulterio, ma anche le seconde nozze), in quanto nella concezione misogina di Seneca la donna pudìca ha trasceso la propria natura passionale e lasciva.

È anche vero che gli stoici condannano l’adulterio di uno qualsiasi dei coniugi senza se né ma, in quanto non lo considerano solo una violazione del patto coniugale, ma anche dei doveri verso la comunità umana, ed Epitteto esplicita nei passi sopra citati che anche l’uomo ha il dovere della continenza e dell’esclusività sessuale nei confronti della moglie.

Per quanto riguarda le Lettere a Lucilio citate da Gobbi (la 116 e la 123), nessuna parla di rapporti omosessuali o di matrimonio, contrariamente a quello che lascia intendere lui: la prima esalta la temperanza (nolo contendere: non sono mica in disaccordo!), e la seconda esorta ad evitare la compagnia di chi fa l'apologia dei vizi.

Ottima idea, ma si ritorna al problema già sollevato con Epitteto: cos'è un vizio? E siamo sicuri che il comportamento omosessuale fosse un vizio per Seneca?

C'è una lacuna nell'argomentazione di Gobbi (che non dà elementi per rispondere alla domanda), che viene colmata da Giovanni Dall'Orto, che qui riporta numerosi passi di Seneca in cui egli condannerebbe i rapporti omosessuali, pur riportando anche quello che di lui dice Dione Cassio, secondo cui Seneca in realtà viveva in maniera assai incoerente con la propria filosofia, accumulando enormi ricchezze, vivendo in un lusso smodato, commettendo adulterio prima con Giulia, e poi con la stessa Agrippina madre del suo pupillo Nerone, ed infine avendo rapporti omosessuali con maschi adulti liberi (cosa sconcertante per gli antichi), ed iniziando lo stesso Nerone a questi rapporti.

Se la notizia dello smisurato arricchimento di Seneca è confermata da Tacito (che riporta anche le giustificazioni del filosofo - vedi qui), nessuno sembra credere a quello che dice Dione Cassio sulla vita sessuale di Seneca - anzi, contribuisce a mettere in guardia gli studiosi dalla tendenza di Dione Cassio a riferire pettegolezzi non verificati.

Quello che osservo è che in diversi dei passi citati da Dall'Orto Seneca sembra condannare, più che i rapporti omosessuali in sé, quello che oggi chiameremmo "sfruttamento sessuale degli schiavi" - a questo i giovani schiavi erano particolarmente esposti, e la morale del tempo non vi si opponeva affatto (si oppongono invece le organizzazioni LGBTQAI odierne). Forse quest'opposizione ha motivato la maldicenza raccolta da Dione Cassio.

Interessante, delle Lettere a Lucilio, è la 122, che vi riporto copiandola da qui:
1 Le giornate si sono ormai accorciate; sono molto più brevi, eppure c'è ancora tempo sufficiente se ci si alza, come dire, col giorno. Più zelante e lodevole è chi lo aspetta in piedi e vede l'alba: è vergognoso che uno, col sole già alto, se ne stia a letto dormicchiando e si svegli a mezzogiorno; per molte persone questa è ancòra un'ora antelucana!

2 C'è gente che scambia la notte per il giorno e non apre gli occhi appesantiti dalla baldoria della sera precedente prima che si faccia buio. Inversa alla nostra è la condizione di quegli uomini che la natura, come scrive Virgilio, ha collocato agli antipodi: Quando Oriente coi cavalli ansanti ci alita addosso, per loro Vespero rosseggiante accende tarde luci. Così nel caso di costoro inversa alla nostra è la loro vita, non la regione.

3 Ci sono nella medesima città degli uomini agli antipodi che, come dice Catone, non hanno mai visto il sorgere o il tramontare del sole. Secondo te sanno come vivere, se non sanno neppure quando? E costoro temono la morte, quando sono dei sepolti vivi? Portano male come gli uccelli notturni. Anche se passano le notti tra il vino e i profumi, anche se trascorrono tutto il tempo della loro veglia a rovescio in pranzi di molte portate ben cotte, non banchettano, ma celebrano il proprio funerale. Per i morti almeno i funerali si celebrano di giorno. Però per dio, se uno si dà da fare, il giorno non è mai lungo. Allunghiamo la vita: l'agire ne è il dovere e la base. Limitiamo la notte e trasferiamone una parte nel giorno.

4 I volatili destinati ai banchetti vengono tenuti chiusi al buio, perché nell'immobilità ingrassino facilmente; così, stando fermi senza muoversi mai, il loro corpo impigrito si gonfia e un grasso molliccio cresce sulle loro membra. Il fisico di questi uomini che si sono votati alle tenebre è ripugnante a vedersi: hanno un colorito più impressionante del pallore degli ammalati: sono bianchicci, deboli e fiacchi; sono vivi, ma la loro carne è morta. E tuttavia questo è il male minore: quanto più fitte sono le tenebre della loro anima! È istupidita, avvolta nell'oscurità più dei ciechi. Chi mai ha avuto gli occhi per vivere al buio?
5 Chiedi come si possa diventare così depravati da aborrire il giorno e trasferire nella notte tutta la propria vita? Tutti i vizi sono contro natura e vengono meno all'ordine prestabilito; l'uomo dissoluto vuol godere di gioie perverse e non solo devia dal retto cammino, ma se ne allontana più che può fino a trovarsi agli antipodi.

6 Secondo te non vivono contro natura quelle persone che bevono a digiuno, che ricevono il vino nelle vene vuote e siedono a tavola già ubriachi? Eppure questo è un vizio frequente nei giovani che vogliono esercitare le forze, e bevono, anzi tracannano, il vino fin sulla soglia del bagno tra i compagni nudi, e si detergono ripetutamente il sudore provocato dalle numerose bevande calde. Bere dopo il pranzo o la cena è da cafoni; lo fanno i villani che non conoscono il vero piacere: loro, invece, godono del vino puro che non galleggia sul cibo, che penetra liberamente fino ai nervi, trovano piacere nell'ubriachezza a digiuno.

7 E quelli che indossano abiti da donna secondo te non vivono contro natura? E quelli che cercano di apparire come giovinetti in fiore, quando ormai la loro stagione è passata? Che c'è di più crudele, di più miserabile? Non diventare mai un uomo per sottostare a lungo a un uomo? E mentre il sesso avrebbe dovuto sottrarli a quella violenza, non li sottrarranno nemmeno gli anni?

8 E non vivono contro natura quelli che vogliono avere le rose d'inverno e con l'impiego di acqua calda e con opportuni trapianti fanno spuntare i gigli nella stagione fredda? Non vivono contro natura quelli che piantano frutteti in cima alle torri? E quelli che sui tetti delle loro case nei punti più alti hanno boschetti ondeggianti: le radici di questi alberi nascono là dove a stento sarebbe potuta arrivare la cima. Non vive contro natura chi getta le fondamenta delle terme nel mare e il nuoto non gli dà piacere se le vasche d'acqua calda non le colpiscono le onde in tempesta?

9 Stabiliscono di voler tutto contro natura, e alla fine se ne allontanano completamente. "Si fa giorno: è ora di dormire. Tutto è tranquillo: facciamo ginnastica ora, facciamo una passeggiata, pranziamo. Oramai è l'alba: è ora di cenare. Non bisogna fare quello che fa il popolo; è squallido vivere la solita vita ordinaria. Abbandoniamo il giorno come lo vivono tutti gli altri: per noi deve esserci un mattino speciale."

10 Costoro per me sono come morti; quanto sono vicini alla fine e anche prematura, vivendo alla luce di fiaccole e ceri! Ricordo che in uno stesso periodo furono molti a condurre questo tipo di vita; tra costoro c'era anche un ex pretore, Acilio Buta; dopo aver dilapidato un ingente patrimonio, quando confidò a Tiberio la sua povertà, questi gli rispose: "Ti sei svegliato tardi."

11 Giulio Montano, un poeta discreto, noto per l'amicizia e la successiva inimicizia con Tiberio, era solito leggere le sue poesie. Spessissimo vi cacciava in mezzo albe e tramonti; una volta un tale, seccato che costui avesse recitato i suoi versi per un giorno intero, sosteneva che non si dovesse più andare alle sue letture, e Natta Pinario disse: "Posso forse comportarmi più gentilmente? Sono pronto ad ascoltarlo dall'alba al tramonto."

12 Una volta egli aveva letto questi versi: Febo comincia a emettere fiamme ardenti e la luce rosseggiante a diffondersi; già la mesta rondine tornando più volte ai nidi pigolanti comincia a portare il cibo e lo distribuisce delicatamente col becco. E Varo, cavaliere romano, amico di M. Vinicio, frequentatore assiduo di cene prelibate che si guadagnava con la sua maldicenza, esclamò: "E Buta comincia a dormire."

13 Poi, sùbito dopo, quando ebbe recitato questi altri versi: Ormai i pastori hanno rinchiuso gli armenti nelle stalle, ormai la pigra notte comincia a spargere il silenzio sulle terre addormentate. Varo di nuovo aggiunse: "Come? È già notte? Andrò a dare il buongiorno a Buta." Era ben nota la sua vita contraria alla normalità; e, come ho detto, in quel periodo erano in molti a vivere così.

14 Certi lo fanno non perché pensino che la notte sia più piacevole, ma perché non apprezzano ciò che è consueto; e poi, chi ha la coscienza sporca non gradisce la luce, e chi è abituato a desiderare o a disdegnare le cose a seconda che il prezzo sia alto o basso, ha ripugnanza per la luce che non costa niente. Inoltre, questi uomini dissoluti vogliono che della loro vita si parli mentre sono ancòra in vita; se passano sotto silenzio, pensano di sciupare il proprio tempo. Perciò a volte agiscono in modo da suscitare vasta eco. Molti sperperano i loro beni, molti hanno delle amanti: per farsi un nome tra costoro non basta la dissolutezza, bisogna distinguersi; in una società così affaccendata una ordinaria perversità non fa nascere chiacchiere.

15 Pedone Albinovano, elegantissimo narratore, ci raccontava una volta di aver abitato sopra l'abitazione di Sesto Papinio, uno di questa compagnia di nottambuli. "Verso le nove di sera," dice, "sento schioccare la frusta. Chiedo che stia facendo: mi rispondono che si fa fare i conti. Verso mezzanotte sento delle grida concitate. Chiedo che accada: mi dicono che esercita la voce. Verso le due chiedo che significhi quel rumore di ruote: mi riferiscono che va a passeggio.

16 All'alba sento correre, chiamare gli schiavi, agitarsi i cantinieri e i cuochi. Domando che accada: mi rispondono che ha chiesto vino mielato e orzata ed è appena uscito dal bagno. 'Il suo pranzo, allora, durava più di una giornata?' No; viveva molto frugalmente; non consumava niente altro che la notte." Perciò Pedone a chi lo definiva gretto e avaro, rispondeva: "Chiamatelo anche nottambulo."

17 Non devi stupirti di trovare tante varietà di vizi: sono diversi, hanno innumerevoli forme, non si possono classificare tutti. La ricerca del bene è semplice, quella del male complessa e assume sempre nuove deviazioni. Lo stesso accade per i modi di vivere: se conformi a natura sono semplici, liberi e presentano scarse differenze; se perversi, sono in contrasto tra loro e con se stessi.

18 Tuttavia, la causa prima di questa corruzione sta per me nel disgusto per la vita normale. Si distinguono dagli altri per l'eleganza, per la raffinatezza delle cene, per il lusso delle carrozze, e allo stesso modo vogliono differenziarsi anche per l'uso del tempo nelle sue successioni. Per loro una cattiva reputazione è il premio dei loro vizi, perciò non vogliono commettere i peccati soliti. E tutti questi che, per così dire, vivono al contrario, cercano appunto una cattiva reputazione.

19 Perciò Lucilio mio, dobbiamo seguire la vita segnata dalla natura, senza allontanarcene: se uno la percorre, tutto gli diventa facile e comodo; se va in senso contrario, vive come se remasse controcorrente. Stammi bene.
Rileggete in sequenza i versetti 6, 7, 8:
6 Secondo te non vivono contro natura quelle persone che bevono a digiuno, che ricevono il vino nelle vene vuote e siedono a tavola già ubriachi? Eppure questo è un vizio frequente nei giovani che vogliono esercitare le forze, e bevono, anzi tracannano, il vino fin sulla soglia del bagno tra i compagni nudi, e si detergono ripetutamente il sudore provocato dalle numerose bevande calde. Bere dopo il pranzo o la cena è da cafoni; lo fanno i villani che non conoscono il vero piacere: loro, invece, godono del vino puro che non galleggia sul cibo, che penetra liberamente fino ai nervi, trovano piacere nell'ubriachezza a digiuno.

7 E quelli che indossano abiti da donna secondo te non vivono contro natura? E quelli che cercano di apparire come giovinetti in fiore, quando ormai la loro stagione è passata? Che c'è di più crudele, di più miserabile? Non diventare mai un uomo per sottostare a lungo a un uomo? E mentre il sesso avrebbe dovuto sottrarli a quella violenza, non li sottrarranno nemmeno gli anni?

8 E non vivono contro natura quelli che vogliono avere le rose d'inverno e con l'impiego di acqua calda e con opportuni trapianti fanno spuntare i gigli nella stagione fredda? Non vivono contro natura quelli che piantano frutteti in cima alle torri? E quelli che sui tetti delle loro case nei punti più alti hanno boschetti ondeggianti: le radici di questi alberi nascono là dove a stento sarebbe potuta arrivare la cima. Non vive contro natura chi getta le fondamenta delle terme nel mare e il nuoto non gli dà piacere se le vasche d'acqua calda non le colpiscono le onde in tempesta?
Il versetto 6 descrive il comportamento (e le sue conseguenze) di chi beve vino al momento sbagliato; il versetto 8 descrive la stoltezza di chi vuole rose fuori stagione, giardini al posto dei tetti, piscine di acqua calda dove il mare sbatte sulla spiaggia.

Il versetto 7 descrive un comportamento paragonabile ad essi, riprovato non perché intrinsecamente malvagio, ma perché esercitato al momento sbagliato. Inoltre, quello che viene qui riprovato non è il rapporto omosessuale (non avrebbe senso allora lamentarsi che viene esercitato "fuori stagione", perché allora significherebbe che anch'esso ha la sua stagione), bensì quella che noi ora chiamiamo "non conformità di genere".

Sia nell'antichità classica che nel mondo arabo precoloniale, si riteneva che l'efebo, il giovanotto che entrava nella pubertà, avendo forme un po' androgine, avesse un fascino particolare, aumentato dalla sua ancora imperfetta conformità di genere.

Seneca sa graduare le sue condanne: l'efebo che approfitta del fascino della sua età fa una cosa che Seneca non approva, ma la condanna più pesante è per chi vuol continuare ad apparire un efebo quando dovrebbe comportarsi da uomo adulto - allo stesso modo in cui per Seneca il dedicarsi ai bagordi di notte è assai più grave del vivere nel lusso di giorno.

L'atteggiamento di Seneca verso il comportamento omosessuale mi pare molto più sfumato di come lo intende Giovanni Dall'Orto (e del resto, Gilberto Gobbi non ritiene produttivo per la sua argomentazione citare questi brani di Seneca); si può certo apprezzare la sua concezione del matrimonio, che è molto bella, e sarebbe migliore se non fosse contaminata dalla misoginia.

L’ideale che propone (il matrimonio come occasione di perfezionamento morale) è alla portata di tutte le coppie che lo vogliano abbracciare, se si rinuncia all’idea che ci debba essere uno che sarà sempre alla guida ed uno che verrà sempre guidato; Musonio Rufo afferma che l'ideale è che i due coniugi gareggino tra loro in sollecitudine verso l'altro, e questo ci fa uscire dalla fissità dei ruoli, che non garantisce mai, nemmeno nelle coppie eterosessuali, durata e serenità.

Omofobo è chi ritiene le coppie omosessuali incapaci di realizzare questo ideale. Non si capisce perché, ed il Platone maldestramente invocato all’inizio avrebbe probabilmente detto che un rapporto “pederastico”, vissuto però come voleva lui, sarebbe stato da questo punto di vista assai più proficuo del matrimonio caldeggiato da Seneca.

Sono entrambi rapporti tra diseguali, in cui uno guida e l'altro è guidato, ed hanno bisogno della temperanza per compiere la loro alta funzione; il paragone non mi pare perciò sbagliato, e mostra come l'ansia di confutare faccia affastellare argomenti ed autorità che si contraddicono a vicenda.

Io dico cartesianamente che il buon senso è la cosa meglio distribuita al mondo, e che chiunque è capace di perfezionamento morale fino a prova contraria - indipendentemente dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere, propria e del partner.

Chi ha pubblicato quell'immagine voleva dire: "Se passa il DL Scalfarotto, diventa impossibile parlare serenamente di questi  filosofi"; io ho voluto ribattere che è possibilissimo, tanto è vero che possiamo farlo meglio di lui.

Raffaele Ladu
Dottore in Psicologia Generale e Sperimentale