Finisco sempre in situazioni strane: sono iscritto alla Society for Humanistic Judaism, ma mi trovo a svolgere un ruolo di cerniera (molto ebraico e molto bisessuale) tra persone LGBTQAI laiche e religiose - specialmente cattoliche.
Un problema interessante che sottopone il blog New Ways Ministry è quello del celibato delle persone LGBTQAI cristiane, avvertendo in questo post che le chiese protestanti americane stanno cadendo in un colossale equivoco.
Francis DeBernardo, l'autore del post, nota che in America si è sempre più disincantati nei confronti delle terapie riparative, ed alcune chiese protestanti stanno chiedendosi se non sia il caso di proporre alle persone LGBTQAI il celibato come regola di vita, rivalutando la tradizione cattolica.
DeBernardo nota che nella tradizione, più che cattolica, della chiesa primitiva, il celibato non viene visto come un ripiego, ma come una vera e propria vocazione, spesso da vivere in comunità (di chierici o monaci) di persone che si sostengono reciprocamente in questa scelta.
Pensare che il celibato sia semplicemente l'unica possibilità per le persone LGBTQAI vuol dire degradarlo; alle considerazioni di DeBernardo aggiungo che, personalmente, non sono omosessuale o bisessuale, ma sono stato celibe per molti anni, e posso capire benissimo chi si sente "fregato" perché vive il celibato come un'imposizione e non una vocazione. Non va proposto come un "far di necessità virtù".
DeBernardo consiglia di leggere questo articolo di Slate.com, una rivista online piuttosto sofisticata, sui cristiani LGBTQAI celibi.
L'autrice dell'articolo, Vanessa Vitiello Urquart, pubblica il fumetto online Tiny Butch Adventures = Avventure di una camionana (i lettori mi scuseranno, ma tradurre così "Tiny Butch = Piccola Camionista" era praticamente irresistibile, specie dopo aver guardato le vignette), il che fa pensare che lei abbia un bel distacco critico dagli intervistati (e dalle intervistate), ma costoro riescono a guadagnarsi le sue simpatie.
Loro tendono a dividere la comunità LGBTQAI in "Lato A" (gli attivisti per il matrimonio egualitario e che pensano che il sesso gay non sia necessariamente immorale) e "Lato B" (quelli che ritengono che il sesso gay sia peccaminoso e/o proibito dalla Bibbia).
Le persone del "Lato B" si trovano due volte isolate - respinte sia dai cristiani omofobi che dalle persone del "Lato A" che hanno il dente avvelenato con le chiese cristiane; però vogliono dimostrare che il celibato non è necessariamente figlio dell'odio di sé (queste persone sono molto critiche verso l'omofobia delle chiese cristiane) e non porta necessariamente all'infelicità.
Viene presentato nell'articolo il sito Spiritual Friendship [Amicizia Spirituale], che vuole sostenere le persone in questo cammino - faccio loro i migliori auguri, ma come laureato in psicologia ricordo che il "freudismo" che sta dietro le terapie riparative (che questo sito combatte come una pericolosa distrazione dal compito di fornire una pastorale cristocentrica alle persone LGBTQAI) è di una qualità che l'Associazione Psicoanalitica Internazionale ormai rifiuta - e va ricordato (contro l'amnesia dei terapeuti riparatori) che lo stesso Sigmund Freud votò contro la decisione del 1921 di non ammettere omosessuali all'analisi didattica (decisione rovesciata nel 1991).
Il sito rivaluta l'amicizia, e vuole che le chiese non offrano solo dei "no" alle persone omosessuali (e bisessuali - riprenderò il punto più tardi), ma siano capaci di coinvolgerle davvero nella vita della comunità cristiana. D'altro canto, queste persone del "Lato B" vorrebbero essere accolte anche dalle persone del "Lato A", che spesso invece le disprezzano.
Un paio d'anni fa ho avuto delle sgradevoli esperienze con persone del "Lato A" che, nel tentativo di escludere persone del "Lato B", hanno finito con il colpire anche me (e mia moglie); un paio di mesi fa sono stato attaccato da una persona del "Lato B", che riteneva me (e mia moglie) degli emissari delle persone del "Lato A" con la missione di convertire il "Lato B" alla logica del "Lato A".
Fa parte del mestiere della "cerniera" quello di venire strattonata dai battenti che unisce; vorrei dire però che si sbaglia colossalmente a ritenere l'altro un pericolo, e che questo accade quando non si capiscono le paure dell'altro, e non si forniscono le garanzie di cui egli avrebbe bisogno.
Ammetto che è stato anche il mio sbaglio, ma è un discorso da rimandare ad un'altra occasione; vorrei attirare l'attenzione su due post di questi cristiani LGBTQAI celibi, che hanno per argomento le terapie riparative.
Non sono poche in America le persone LGBTQAI, specialmente se cristiane, che sono "sopravvissute" alle terapie riparative; la loro fede vieta loro di provare astio verso chi gliele ha proposte, ma la critica nei confronti delle organizzazioni che le propugnano non è meno forte.
Cominciamo da questo post, il cui autore, Jeremy Erickson, ammette di essere bisessuale (lo spiega meglio qui) - come Lev Tolstoj, è attratto fisicamente dalle donne e sentimentalmente dagli uomini - e questo spiega come avesse creduto possibile che una terapia riparativa potesse avere successo con lui.
Ora invece si rende conto che le persone da cui è attratto non sono affatto cambiate, e che la cosa che deve fare è vivere al meglio la sua bisessualità, anche se da celibe, ignorando il pregiudizio per cui la bisessualità non è un orientamento stabile, e se uno è celibe oppure monogamo la bisessualità scompare.
L'altro post è di una donna, Julie Rodgers, la quale lo intitola "A Counter-Cultural Kind of Love = Un tipo di amore controculturale". In esso lei descrive la sua esperienza con il movimento degli ex-gay, rappresentato nel suo caso da Exodus International, e come vive adesso il suo celibato.
Lei, essendo cresciuta in "conservative churches = chiese conservatrici", si è trovata a 17 anni a dover scegliere: o "allontanarsi dallo sperimentare una relazione vibrante ed intima con Gesù", o "sopprimere la mia sessualità in un modo che portava alla depressione ed all'isolamento".
Le persone ex-gay che lei incontrò erano simpatiche, ilari, e generose, e lei pensò che il movimento degli ex-gay fosse la soluzione al suo problema: poteva ammettere di essere attratta dalle donne e trovare dei compagni di strada che cercavano Cristo come lei.
Dopo 8 anni, lei si è resa conto che non funzionava: le terapie (riparative e non) che aveva attraversato avevano migliorato il suo equilibrio psichico ed i rapporti con le altre persone [mi permetto di osservare che ha avuto molta fortuna], e nel movimento ex-gay ha trovato amici meravigliosi che l'hanno molto aiutata - ma la sua attrazione verso le donne era sempre quella, ed il movimento dava troppa importanza al trovare una causa (riparabile) dell'omosessualità, anziché al trovare una vita cristianamente soddisfacente per le persone omosessuali (il problema viene meglio sviscerato da lei qui).
Inoltre il movimento insiste troppo sul matrimonio (eterosessuale, ovviamente) come epilogo della terapia riparativa, e sul rispetto di ruoli di genere stereotipici e (lo dice Julie Rodgers) soffocanti. Inoltre, lei si rendeva conto che il suo essere gay (non usa la parola "lesbica", anche se sarebbe secondo me assai opportuna) la rendeva diversa dalle altre donne, ed era una cosa che non poteva cambiare.
Lei si era ritrovata al punto di partenza: voleva qualcosa che conciliasse il suo essere gay con il suo essere cristiana, senza fingere di essere quello che non era, ma si era accorta di recitare una parte, quella dell'"ex-gay" e della "futura sposa", non di esprimere quello che lei era davvero.
Gli amici che ha incontrato in Spiritual Friendship le hanno permesso di dare nuovo senso alla sua vita ed al suo impegno cristiano, per cui le faccio i migliori auguri.
Ma un'osservazione mi pare opportuna: ho detto che mi pare opportuno definire Julie Rodgers "lesbica" perché la sua vita mi ricorda il "continuum lesbico" di cui parlava la poetessa ebrea Adrienne Rich.; lascio a lei la parola:
Ho scelto di usare i termini esistenza lesbica e continuum lesbico perché la parola lesbismo ha un suono limitante e clinico. Esistenza lesbica suggerisce sia il fatto della presenza storica delle lesbiche e la nostra creazione continua del significato di quell'esistenza. Intendo il termine continuum lesbico come includente una gamma - in tutta la vita di ogni donna, ed in tutta la storia - di esperienze identificate al femminile; non solo il fatto che una donna abbia avuto o consciamente desiderato esperienze sessuali genitali con un'altra donna. Se noi lo espandiamo per abbracciare molte altre forme di intensità primaria tra due o molte donne, compresa la condivisione di una ricca vita interiore, fare blocco contro la tirannia maschile, il dare ed il ricevere sostegno pratico e politico; se sentiamo in esso delle associazioni come la resistenza al matrimonio ed il comportamento "sfranto" identificato da Mary Daly ([la parola inglese "haggard", qui tradotta con "sfranto", ha dei] significati obsoleti come "intrattabile", "cocciuto", "capriccioso", e "non casta", "una donna riluttante a cedere al corteggiamento") - noi cominciamo ad afferrare profondità della storia e della psicologia femminile che giacciono fuori portata a causa di una concezione limitata e soprattutto clinica di "lesbismo".
Direi che Julie Rodgers sta benissimo in questo continuum. Il lesbismo così definito non è solo un'orientamento sessuale, ma una vera e propria filosofia di vita che Julie Rodgers concilia con il cristianesimo, così come probabilmente molte vergini consacrate che la chiesa cattolica ha elevato all'onore degli altari senza (giustamente) farsi troppe domande.
Credo che l'esperienza di Julie Rodgers vada meditata: molte persone entrano nel movimento degli ex-gay perché cercano una paradossale legittimazione alla loro queerness - un'orientamento sessuale si può cancellare (ai bisessuali capita sette volte al giorno), una malattia no.
Ma non è il ritenersi "in via di guarigione" la soluzione. Uno può scegliere di vivere da celibe, ma non può vivere vergognandosi di se stesso. Julie lo ha capito.
Raffaele Ladu
Dottore in Psicologia Generale e Sperimentale