Sappiamo cos’è la cancellazione bisessuale – il condannare le persone bisessuali all’invisibilità; poiché però loro non spariscono, bisogna sussumerle, ovvero farle rientrare in un’altra categoria per nasconderle.
Ora vi parlo di un articolo scritto nel 1995 di Elisabeth Grosz, dal titolo “Experimental Desire: Rethinking Queer Subjectivity = Desiderio sperimentale: ripensare la soggettività queer”, pubblicato nell’antologia The Routledge Queer Studies Reader, alle pagine 195-211.
Tutti gli articoli (anche questo) di quell’antologia sono interessanti, ma due brani non mi hanno proprio convinto – si trovano a pagina 207, e ve li traduco in italiano:
Brano 1:
Nel caso degli omosessuali, penso che sia meno una questione di ciò che sono che di ciò che fanno che è considerato offensivo. Questo spiega il piuttosto comune atteggiamento “liberale” di molti etero che dicono qualcosa come: “Non mi importa di quello che fanno, solo vorrei che lo facessero solo nel privato delle loro case!” oppure “Quello che fai nella tua camera da letto è solo affar tuo”, che significa pressappoco che finché non fai cose froce [queer], finché la tua sessualità non viene in qualche modo messa in piazza, non gliene importa di quello che sei – cioè, loro possono pensare che tu sia proprio come loro. È questa scissione tra ciò che uno è e ciò che uno fa che crea la nozione del “closet = armadio”, una distinzione tra il privato ed il pubblico che rifiuta l’integrazione. Inoltre, consente anche la possibilità del coming out – tutto sommato, un concetto assai ridicolo nella maggior parte delle altre forme di oppressione. Questo è quello che consente agli omosessuali di “passare” da etero con facilità che è straordinariamente raro per altri gruppi oppressi. L’omofobia è un’oppressione basta sulle attività dei membri di un gruppo, e non su alcun attributo che definisca un gruppo.
Brano 2:
Il lesbismo, per esempio, testimonia la fondamentale plasticità del desiderio delle donne (ed anche presumibilmente degli uomini), la sua intrinseca apertura non solo ai cambiamenti nel suo oggetto sessuale (dal maschile al femminile o viceversa), ma anche la sua malleabilità nelle forme e nei tipi di pratiche e piaceri a disposizione. In altre parole, alle possibilità più o meno infinite di divenire. Testimonia la rigidità, la paurosità, la noiosa, in effetti, ripetizione infinita della forma nei ruoli sessuali occidentali stabili maschile/femminile, i ruoli a cui si abituano le relazioni stabili, e le possibilità di cambiamento intrinseche ad esse, possibilità che debbono essere ignorate o soprascritte perché esse continuino questi ruoli.
Al primo brano ha già risposto in anticipo (nel 1990) Eve Kosofsky Sedgwick nel suo articolo “Epistemologia del closet”, pubblicato in italiano nell’antologia Stanze Private, quanto ha descritto Ester, la protagonista dell’omonimo libro biblico, come la regina del coming-out: lei non si svela al re Assuero suo marito come lesbica, bensì come ebrea – e se il poter nascondere prima per poi rivelare la propria ebraicità non fosse stato possibile, il libro di Ester e tutti i Purim Spiel che ogni anno gli ebrei del mondo producono sulla falsariga del libro non avrebbero senso.
Non è vero dunque che solo le persone omosessuali o quasi possono decidere di velarsi e/o fare il coming out. Ho un’amica israeliana che è sfuggita alle grinfie dei nazisti fingendosi ariana – insieme con la sua famiglia – per oltre due anni, e moltissimi ebrei se la sono cavata in questo modo.
Inoltre, la frase “l’omofobia è un’oppressione basata sulle attività dei membri di un gruppo, e non su alcun attributo che definisca un gruppo” potrebbe far trasalire tutte le persone che appartengono ad un gruppo stigmatizzato.
Tutti loro sanno che non si dice mai "io odio gli ebrei", ma “gli ebrei praticano l’usura”; non si dice mai "gli zingari non li sopporto", bensì “i rom rubano” - possiamo aggiungere altri luoghi comuni come “i gay stuprano i bambini”, “le lesbiche educano male i figli”, “i/le bisessuali scopano chiunque respiri”, “i sardi trombano le pecore”, ecc., che mostrano che la distinzione tra quello che definisce un gruppo e le azioni che vengono attribuite ai membri di codesto gruppo non solo è teoricamente insensato (infatti, descrivere un gruppo significa anche prevedere, correttamente o meno, il comportamento dei suoi membri), ma anche praticamente insignificante: chi vuole perseguitare non dirà mai che odia le persone per quello che sono, ma dirà sempre che odia quello che fanno.
L’unico senso che riesco a trovare in queste sciocchezze è che consonano con il pregiudizio secondo cui i bisessuali possono passare facilmente da etero (entrando in una relazione eterosessuale) ed evitare così le discriminazioni (perché sarebbe quello che fanno le persone LGBT ad attirare le discriminazioni, non quello che sono).
Non solo le statistiche mostrano invece che i bisessuali sono più discriminati di gay e lesbiche, ma posso citare anche l’autrice di quest'articolo , che dice:
Essere in una relazione etero non cancella l’orientamento di una persona bisessuale o significa che non può essere oppressa o non ha bisogno dei diritti LGBT. (Per esempio, fui licenziata quando il mio datore di lavoro scoprì da un post su Facebook che ero bisessuale. Ahimè, nel mio stato [americano] questo è legale. Forse il fatto che all’epoca uscissi con un uomo mi salvò la pagnotta? No, proprio no).
Del secondo brano dico solo che pecca di sussunzione, perché descrive una politica bisessuale, non una politica lesbica. Per il lesbismo politico, lesbica è la donna che non ha rapporti con uomini – e questo squalifica il brano della Grosz come attendibile descrizione del lesbismo.
Un brano simile può anche apparire su una pubblicazione lesbica, ma solo per far fare bella figura alla sua direttrice editoriale, non certo per indicare alle lettrici che atteggiamento devono avere verso le donne che passano da una relazione con un’altra donna ad una con un uomo.
La stessa lesbica che una volta disse nobilmente che amava una persona per quello che era e non per il suo genere, rimproverò poi una donna che era passata da una relazione con una donna ad una con un uomo dicendo che lo aveva fatto per il "privilegio eterosessuale": l'idea che questa donna non avesse fatto altro che
"[testimoniare] la fondamentale plasticità del desiderio delle donne (ed anche presumibilmente degli uomini), la sua intrinseca apertura non solo ai cambiamenti nel suo oggetto sessuale (dal maschile al femminile o viceversa), ma anche la sua malleabilità nelle forme e nei tipi di pratiche e piaceri a disposizione. In altre parole, alle possibilità più o meno infinite di divenire"
non le poteva proprio venire in mente! Non fa parte dell'orizzonte politico lesbico.
Normalmente non dovrei interferire con il modo in cui una persona etichetta se stessa, ma se una donna risponde davvero alla descrizione del secondo brano, un’organizzazione lesbica è una delle meno adatte a lei, e mi sento in dovere di metterla in guardia.
Raffaele Ladu